Artist: John Cale
Album: Hobo Sapiens, 2003
Even a bike and carelessness, still moments of pure relaxa described by great music: John Cale write "Bicycle" for "Hobo Sapiens" (2003), built on the basis of a simple electronic drum loop seasoned by a whisper voice designed by Brian Eno.
Inspired by the uninhibited bravado of Beck and the nonchalant eclecticism of The Beta Band, amongst others, Cale has spent much of the last two years billeted in his Greenwich Village basement studio, mastering the 21st century musician’s paint box, Pro Tools - revelling in the freedom and complete creative control the digital technology affords. The first fruit of this recording renaissance, in which shimmering, disembodied electronics couch remarkable new songs and densely detailed arrangements are ratcheted up to new heights, is HoboSapiens, Cale’s first full-length album of songs in seven years. A twelve-track cavalcade of sample-laden rock, Grand Guignol balladry and unclassifiable instrumental exotica, HoboSapiens is a consummate John Cale album in the noble tradition of Paris 1919, Fear, or Music For A New Society - albeit with a modernist twist. Holding a magnifying glass to global human Diasporas, its lyrics zoom cinematically from Zanzibar to Pacific Palisades via Niagara Falls and the Norfolk Broads – its frame of reference positively encyclopedic.
Per anni Cale ha coltivato una sua specie di schizofrenia, dividendo con la spada i dischi rock e pop da quelli di esperimento. Negli ultimi tempi pare tendere a una ricomposizione: il penultimo Walking On Locusts (splendido) e questo nuovo Hobosapiens (inferiore ma sempre notevole) fluttuano dolcemente in un mondo di canzoni strane, evolute, dove il gusto per le sorprese sonore e la ricerca si combinano con una piacevole semplicità di schemi e fruibilità. Un disco romantico, drammatico, elegiaco, con la bella voce profonda dell'artista e un tessuto elettronico che rende semplicemente vera la boutade del titolo: Cale ha davvero il tono e il passo del cantastorie da strada, con i mezzi però della più evoluta tecnologia. Fra i brani spiccano Magritte, con la sinuosa viola del vecchio signor VU, la frivola Bicycle e Reading My Mind, che presenta curiosi, concitati campionamenti in lingua italiana. (riccardo bertoncelli)
Cale scrive, architetta, suona, fa quasi tutto da sé appoggiandosi come non mai alle macchine, fidando sul potere oscuro e incantatorio dello studio di registrazione. Il suo merito principale è di aver saputo dominare questa situazione con naturalezza, con solenne savoir faire, con generosità mai tronfia, senza giammai scivolare in tentazioni auto-agiografiche o trendiste (come invece avviene purtroppo - e fin troppo - al quasi coetaneo Bowie). Un palinsesto dunque che alterna tinte altere (quella Caravan che sembra i Massive Attack in estasi gospel, quella Over Her Head che fa idealmente incontrare Mark Lanegan e Brian Eno, o quella Verses che sembra un David Sylvian downtempo) e disinvolte (il folk rock alla Steve Wynn di Things - poi trasfigurato technofunk in Things X - oppure l'escursione nu jazz di Look Horizon), vagamente stranite (l'ossificazione reggae di Chums Of Dumpty, le composite deviazioni waitsiane di Waiting For Blonde) e solari (il kraut-pop liofilizzato - con un piccolo aiuto di mister Eno - di Bycicle, o il saltellante jingle jangle - con tanto di finti found voices cinematici in italiano - di Reading My Mind).John l'affilato è addirittura impagabile quando omaggia René Magritte in - pensate un po' - Magritte (una suggestione serrata d'archi, ritmiche cupe, voce colta ai margini di un delirio) e addirittura Ezra Pound in E. Is Missing (elettroniche liquide, felpate, pulsanti, chitarre in vena di sogni & carezze) senza spendere un centesimo di retorica snob (come invece talora capita al vecchio sodale Lou Reed). Sa essere convincente in quel rigurgito new wave (versante Talking Heads o primo Peter Gabriel) con ectoplasmi surf e piglio noise (leggi: Flaming Lips) che risponde al nome di Twilight Zone, e perfino toccante quando in Wilderness Approaching - dalla soundtrack di Paris, film del regista angloiraniano Ramin Niami) si affida al vocione perentorio, ad un piano snervato e a poco altro che non sia il cuore.Una collezione dunque di suoni complessi, strutturati, curiosi. Ma freschi come una pioggia di foglie in autunno, tra colori come pagine di ricordi, nell'inquieta serenità del vivere dentro ciò che fuori non è (più) dato. Senza il peso di un passato troppo grande da sopportare. Tirando le fila di un presente certo non altrettanto glorioso (come potrebbe?) eppure vivo come non mai. (stefano solventi)
Instrumental.
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